Ore cinque e quaranta: non riesco a dormire.
Ne approfitto per un giro a Talad Noi, mercato rionale di
Chinatown: tra pesce fresco, inquietanti alimenti sotto sale, papaya e fette di
angurie, sdentate vecchiette mi danno il buon giorno. Per 15 bath (meno di 40
centesimi) faccio il primo acquisto della giornata: due eccellenti panini
prosciutto, insalata e granchio: oggi anch’io avrò il mio lunch box!;)
Un battello sul fiume e alle sette sono già al Wat Arun: profumo di gelsomino e suono
di campane, in questo tempio sacro ancora deserto… Mi lascio sfuggire un “Oh,
My God” fissando il prang che si
innalza al cielo: una spirale da 79 metri , ceramiche colorate nella tranquilla
serenità di draghi e spiriti custodi.
Alle otto mi avvio verso il Palazzo Reale: orde di turisti
all’orizzonte, ombrelli alla mano, bottiglie d’acqua nello zaino, i visi
imperlati di sudore; fa già caldissimo in questa umida giornata estiva. Una
fetta di cocomero e un caffè freddo e sono pronta per il Buddha “di smeraldo”,
ricordo di vita alla ricerca del distacco dal mondo, dalle passioni,
dall’attaccamento alle cose…
Qual è la via verso la salvezza? Alla ricerca del proprio
nirvana o di un’esistenza come Bodhisattva, ad un passo dal nirvana ma che vi
rinuncia per aiutare gli altri a raggiungerlo[1]?
Godere del proprio tesoro o abbandonarlo per condividere la
propria scoperta con gli altri?
Tornare indietro dopo aver scoperto la luce che illumina la
caverna?
…Fuori del palazzo reale un mercato di amuleti sembra
suggerire che la risposta non sarà semplice…
Allora il viaggiatore scopre di possedere una forza che credeva di avere smarrito. Sale montagne, attraversa deserti, scala sentieri dove soltanto le capre brucano un magrissimo cibo, resta per giorni a contemplare i ricami di una moschea o i cortei scolpiti lungo le scale di un palazzo. Non conosce più tempo né spazio; e spera che la linea del suo itinerario si allunghi, si allunghi, fino a trasformarsi in un labirinto complicatissimo o in un arabesco senza fine, e non si chiuda più su se stessa. Sebbene i volti amati gli si affaccino vivissimi alla memoria, non vorrebbe tornare. Pensa di aver trascurato i luoghi essenziali, sconosciuti a lui stesso e a tutti. Sogna altri monumenti, altre chiese, altre rovine, e gli altri paesi che stanno dopo il confine, nei quali forse il viaggio dovrà trovare il suo compimento.
RispondiEliminaMa l'itinerario ha la sua forma predestinata. Dopo tre settimane, il viaggiatore giunge davanti al recinto della città sacra, dove otto grandi porte spalancate permettono allo straniero di guardare, ma non di penetrare. Gira più volte intorno al recinto: la mattina, la sera, quando il suono del tamburo e delle trombe aiuta il sole a scomparire oltre il limite dell'orizzonte; e la notte, quando un bambino cieco, con una mano rigida lungo il corpo e l'altra tesa verso l'alto, con gli occhi innaturalmente fissi, che forse vedono qualcosa di sconosciuto, canta le lodi di Alì, « sua sola guida, suo solo conforto », mentre un piccolo gruppo di persone ascolta in silenzio la voce perfettamente ritmata. In quel momento, il viaggiatore crede di essere giunto nel luogo che solo può rivelargli il dolore del mondo, e la bellezza consacrata di questo dolore.
Egli cammina ancora intorno al recinto, e vorrebbe conoscere la città proibita. I custodi, che posano la mano sull'alto bastone d'argento — i laceri custodi dalla barba lunga, attorno ai quali s'accalca una folla lacera e miserabile —, lo guardano ogni volta con più gentilezza e quasi con benevolenza. Uno di loro gli indica sorridendo il fiore di ceramiche verdi ed azzurre, dentro il quale sta iscritto il nome e la gloria di Dio. Egli immagina di poter penetrare dentro il recinto, scoprendo così l'ultimo significato del suo itinerario. Ma il sorriso dei custodi è ingannevole. Le porte aperte allo sguardo restano chiuse al passo dell'infedele. Nessuno può varcarle, se è soltanto uno straniero, e non uno che abita « qui », in « questo » mondo. Così il viaggio si chiude su se stesso. Il viaggiatore capisce che l'itinerario di settimane, in cui ha creduto di possedere il mondo cogli occhi, è stato un lungo giro davanti a porte che non si sono mai spalancate, dietro le quali ha gettato uno sguardo inutilmente desideroso. Egli porta a casa soltanto il riflesso — indefinito e prezioso — di quanto continua a restare nascosto dietro le porte.
Pietro Citati - I frantumi del mondo
Grazie, con tutto il cuore, per questo commento.
RispondiEliminaOggi, in viaggio verso il nord, al confine con il Laos,mentre ascoltavo musica thailandese e tentavo una basilare conversazione con il mio vicino, ho capito quanto il viaggiatore possa sempre e solo dirsi solo spettatore dello spettacolo che attraversa, delle meraviglie dalle quali si sente rapito, dei luoghi che gli entrano nel cuore.
Spettatore, non conquistatore, né possessore.
Spettatore, ma attore "interiore" , questo sì, attento a lasciare che il suono fragile di campane lontane e la voce limpida del muezzin di una moschea, straniera e per questo più forte, gli entrino dentro, lo cambino, lo trasformino, gli facciano comprendere...Come dalla cima di una montagna: si ha bisogno di salire, di guardare dall'alto, per poi tornare a casa a distinguere meglio i contorni del nostro mondo....
“Marco Polo immaginava di rispondere che più si perdeva in quartieri sconosciuti di città lontane, più capiva le altre città che aveva attraversato per giungere fin là, e ripercorreva le tappe dei suoi viaggi, e imparava a conoscere il porto da cui era salpato, e i luoghi familiari della sua giovinezza, e i dintorni di casa, e un campiello di Venezia dove correva da bambino”(Italo Calvino, "Le città invisibili")