Phnom Penh, Museo Tuol Seng
Parlare di Phnom Penh è difficile: ci si ritrova con un
sapore amaro in bocca, risucchiati da una memoria inevitabile, sommersi da un
futuro di sviluppo insaziabile e incontrollato. Suv, bmw, ristoranti radical chic
e negozi bio-etici , strade larghe e centri commerciali, palazzi reali e
mercati, Lucky supermarket e Happy Herb pizza.
Disorientati, a domandarsi in quale parte sperduta di mondo
ci si ritrovi.
Ci pensano il museo Tuol Seng e il campo della morte di
Choeng Ek a farci far mente locale.
17 aprile 1975: i Kmher rossi entrano a Phnom Penh: tre anni
di potere, più di due milioni di morti.
“Sono legalmente responsabile della morte di oltre mille
persone e prego per le loro anime”. Si legge nella testimonianza di un gerarca
della Kampuchea Democratica.
Memoria e rinascita, brividi di freddo, campi abbandonati ad
anime senza pace…
Bere il calice amaro del ricordo, mandandolo giù con Angor
Beer, ascoltando distratti una canzone dei Coldplay. A guardare sullo sfondo
una città senza capirla, senza individuarne i confini di senso, domandandosi se
si sia inginocchiata al capitalismo o se nasconda la sua vera natura
ricacciandola in strette viuzze, annegandola in fogne a cielo aperto,
dimenticandola tra vestiti alla moda e mixed fruit shakes.
Domani si parte: destinazione Siem Reap, per ammirare i
sorrisi enigmatici delle statue dei templi di Angkor.
"Testimonianze delle nefandezze della guerra e delle porcherie della pace..."
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