domenica 29 luglio 2012

Bangkok...





Ore cinque e quaranta: non riesco a dormire.
Ne approfitto per un giro a Talad Noi, mercato rionale di Chinatown: tra pesce fresco, inquietanti alimenti sotto sale, papaya e fette di angurie, sdentate vecchiette mi danno il buon giorno. Per 15 bath (meno di 40 centesimi) faccio il primo acquisto della giornata: due eccellenti panini prosciutto, insalata e granchio: oggi anch’io avrò il mio lunch box!;)
Un battello sul fiume e alle sette sono già al Wat Arun: profumo di gelsomino e suono di campane, in questo tempio sacro ancora deserto… Mi lascio sfuggire un “Oh, My God” fissando il prang che si innalza al cielo: una spirale da 79 metri, ceramiche colorate nella tranquilla serenità di draghi e spiriti custodi.
Alle otto mi avvio verso il Palazzo Reale: orde di turisti all’orizzonte, ombrelli alla mano, bottiglie d’acqua nello zaino, i visi imperlati di sudore; fa già caldissimo in questa umida giornata estiva. Una fetta di cocomero e un caffè freddo e sono pronta per il Buddha “di smeraldo”, ricordo di vita alla ricerca del distacco dal mondo, dalle passioni, dall’attaccamento alle cose…
Qual è la via verso la salvezza? Alla ricerca del proprio nirvana o di un’esistenza come Bodhisattva, ad un passo dal nirvana ma che vi rinuncia per aiutare gli altri a raggiungerlo[1]?
Godere del proprio tesoro o abbandonarlo per condividere la propria scoperta con gli altri?
Tornare indietro dopo aver scoperto la luce che illumina la caverna?
…Fuori del palazzo reale un mercato di amuleti sembra suggerire che la risposta non sarà semplice…


[1] Differenza tra il buddhismo thailandese, cambogiano e laotiano e quello vietnamita…


2 commenti:

  1. Allora il viaggiatore scopre di possedere una forza che credeva di avere smarrito. Sale montagne, attraver­sa deserti, scala sentieri dove soltanto le capre brucano un magrissimo cibo, resta per giorni a contemplare i ricami di una moschea o i cortei scolpiti lungo le scale di un palazzo. Non conosce più tempo né spazio; e spe­ra che la linea del suo itinerario si allunghi, si allunghi, fino a trasformarsi in un labirinto complicatissimo o in un arabesco senza fine, e non si chiuda più su se stessa. Sebbene i volti amati gli si affaccino vivissimi alla me­moria, non vorrebbe tornare. Pensa di aver trascurato i luoghi essenziali, sconosciuti a lui stesso e a tutti. So­gna altri monumenti, altre chiese, altre rovine, e gli al­tri paesi che stanno dopo il confine, nei quali forse il viaggio dovrà trovare il suo compimento.
    Ma l'itinerario ha la sua forma predestinata. Dopo tre settimane, il viaggiatore giunge davanti al recinto della città sacra, dove otto grandi porte spalancate per­mettono allo straniero di guardare, ma non di pene­trare. Gira più volte intorno al recinto: la mattina, la sera, quando il suono del tamburo e delle trombe aiu­ta il sole a scomparire oltre il limite dell'orizzonte; e la notte, quando un bambino cieco, con una mano rigida lungo il corpo e l'altra tesa verso l'alto, con gli occhi innaturalmente fissi, che forse vedono qualcosa di sco­nosciuto, canta le lodi di Alì, « sua sola guida, suo solo conforto », mentre un piccolo gruppo di persone a­scolta in silenzio la voce perfettamente ritmata. In quel momento, il viaggiatore crede di essere giunto nel luo­go che solo può rivelargli il dolore del mondo, e la bel­lezza consacrata di questo dolore.
    Egli cammina ancora intorno al recinto, e vorrebbe conoscere la città proibita. I custodi, che posano la mano sull'alto bastone d'argento — i laceri custodi dal­la barba lunga, attorno ai quali s'accalca una folla la­cera e miserabile —, lo guardano ogni volta con più gentilezza e quasi con benevolenza. Uno di loro gli in­dica sorridendo il fiore di ceramiche verdi ed azzurre, dentro il quale sta iscritto il nome e la gloria di Dio. E­gli immagina di poter penetrare dentro il recinto, sco­prendo così l'ultimo significato del suo itinerario. Ma il sorriso dei custodi è ingannevole. Le porte aperte al­lo sguardo restano chiuse al passo dell'infedele. Nessu­no può varcarle, se è soltanto uno straniero, e non uno che abita « qui », in « questo » mondo. Così il viaggio si chiude su se stesso. Il viaggiatore capisce che l'itinera­rio di settimane, in cui ha creduto di possedere il mon­do cogli occhi, è stato un lungo giro davanti a porte che non si sono mai spalancate, dietro le quali ha get­tato uno sguardo inutilmente desideroso. Egli porta a casa soltanto il riflesso — indefinito e prezioso — di quanto continua a restare nascosto dietro le porte.
    Pietro Citati - I frantumi del mondo

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  2. Grazie, con tutto il cuore, per questo commento.
    Oggi, in viaggio verso il nord, al confine con il Laos,mentre ascoltavo musica thailandese e tentavo una basilare conversazione con il mio vicino, ho capito quanto il viaggiatore possa sempre e solo dirsi solo spettatore dello spettacolo che attraversa, delle meraviglie dalle quali si sente rapito, dei luoghi che gli entrano nel cuore.
    Spettatore, non conquistatore, né possessore.
    Spettatore, ma attore "interiore" , questo sì, attento a lasciare che il suono fragile di campane lontane e la voce limpida del muezzin di una moschea, straniera e per questo più forte, gli entrino dentro, lo cambino, lo trasformino, gli facciano comprendere...Come dalla cima di una montagna: si ha bisogno di salire, di guardare dall'alto, per poi tornare a casa a distinguere meglio i contorni del nostro mondo....

    “Marco Polo immaginava di rispondere che più si perdeva in quartieri sconosciuti di città lontane, più capiva le altre città che aveva attraversato per giungere fin là, e ripercorreva le tappe dei suoi viaggi, e imparava a conoscere il porto da cui era salpato, e i luoghi familiari della sua giovinezza, e i dintorni di casa, e un campiello di Venezia dove correva da bambino”(Italo Calvino, "Le città invisibili")

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